Ho sempre avuto una salute di ferro e mi considero una persona forte e sana. Tuttavia, da gennaio a questa parte, il mio veicolo fisico sta richiedendo più manutenzione del solito. E, come ogni esperienza forte, mi sta insegnando tanto!
Tra le numerose lezioni, una che mi ha colpito in particolar modo nelle scorse settimane è stata rendermi conto ancora una volta di quanto il corpo fisico sia connesso ai corpi sottili. In particolare, ho toccato con mano (anzi, con il braccio e la spalla!) come le emozioni rimangano intrappolate nei tessuti e nei muscoli. È bastato che un bravissimo osteopata mi toccasse in alcuni punti doloranti per liberare emozioni molto forti, che avevo trattenuto negli scorsi mesi per affrontare tutti i miei viaggi e attività.
Ed ecco un’altra lezione preziosissima: proprio le strategie che mettiamo in atto per “funzionare”, per “proteggerci”, per rimanere “in controllo”, possono diventare la prima causa della nostra sofferenza! Sono scoppiata a ridere quando il terapista mi ha detto che i muscoli che tenevo contratti durante il trattamento, per paura del dolore, erano proprio quelli che finivano per causare un dolore maggiore! Che lezione!
E difatti, se ci pensiamo bene, è così anche in altri ambiti della nostra vita: ad esempio, quando ci chiudiamo agli altri per proteggerci, la sofferenza è certa, perché entriamo in tensione e contrazione e la nostra anima piange.
Mi sono anche resa conto, ancora una volta, del ruolo che hanno in tutto questo i nostri “solchi”, cioè le credenze limitanti che hanno origine dalle nostre esperienze passate. In me, ad esempio, dopo mesi di sofferenza fisica – e dopo i primi dolorosi minuti di trattamento fisioterapico – si era formato un solco molto forte, legato all’aspettativa del dolore con certi movimenti. Prima ancora che il terapista mi toccasse, il mio corpo attivava la sua memoria e si proteggeva. E per quanto io dessi continuamente al mio braccio il comando di rilassarsi, lui non ne voleva sapere: il “solco” era più forte della volontà!
Le nuove esperienze, inoltre, si agganciano ad altre simili vissute in passato, amplificando la magnitudo di ciò che stiamo vivendo nel presente. La nostra memoria cellulare, infatti, non è in grado di distinguere tra il “là e allora” e il “qui e ora” e finisce per funzionare con un effetto cumulativo. Ad esempio, ho visto chiaramente che la mia difficoltà ad “affidare” il braccio al terapeuta e il mio bisogno di “essere in controllo” non erano solo una risposta al “qui e ora” del dolore che sentivo, ma un atteggiamento che affondava le radici in ben altre esperienze.
Il primo passo, quindi, è prendere consapevolezza dei nostri blocchi, fisici e sottili. Una volta smascherato il “solco”, possiamo usare tutte le tecniche che conosciamo per apportare la guarigione: possiamo usare la meditazione per identificarci con la parte già perfetta di noi; le affermazioni, le visualizzazioni, il dialogo interiore o le tecniche specifiche di Yogananda o di altri sentieri per riscrivere i nostri circuiti neuronali; la preghiera, nel caso in cui questi “solchi” e i relativi blocchi siano particolarmente ostinati; e così via.
L’importante, come sempre, è non scoraggiarci, specialmente se gli ostacoli che incontriamo a livello fisico, mentale o emozionale sono dei “vecchi amici” che tornano a trovarci per l’ennesima volta! È abbastanza comune, in questi casi, formulare giudizi poco clementi su noi stessi, come: «Guarda che disastro che sono, nonostante tutto il percorso che ho già fatto!», o la classica frase che ha il potere immediato di farci demoralizzare: «Ecco, sono di nuovo al punto di partenza!».
Se questo accade, è importante ricordare subito alla nostra mente che non siamo affatto al punto zero, ma che stiamo vivendo un’opportunità di ulteriore guarigione PROPRIO PERCHÉ abbiamo già fatto tutto il lavoro precedente! E che questa non è la dimostrazione di un “fallimento”, ma un’esperienza evolutiva che siamo pronti ad affrontare per andare avanti.
Soprattutto, è importante resistere alla falsa convinzione di aver «perso tutto quello che avevamo realizzato o conquistato prima». Niente è mai perduto (come afferma il Signore Krishna nella Bhagavad Gita). Tutto quello che siamo stati e abbiamo fatto rimane con noi: non solo il cattivo karma, ma anche quello buono, i progressi, i successi, la maggiore comprensione.
La sfida è riconoscere e accettare che tutto quel progresso è pronto, adesso, a manifestarsi IN UN’ALTRA FORMA. In poche parole: lasciar andare le aspettative su noi stessi e l’attaccamento a come pensiamo di dover essere o a come pensiamo che la nostra vita debba essere… o, ancora peggio, a come pensiamo che “la vita di una persona spirituale” debba essere!
Capiterà più e più volte, nella nostra vita, di doverci rinchiuderci nel bozzolo, abbandonando la vecchia farfalla che eravamo per diventare nuovamente crisalidi, pronte a far spuntare nuove ali e a volare in nuovi cieli. La sfida è non soffermarci con giudizio sulla “bruttezza” della crisalide, ma CELEBRARE la nuova nascita che si sta compiendo in noi. AMARE le parti di noi – fisiche o emotive che siano – che ci stanno di nuovo scuotendo, spesso fin nelle fondamenta del nostro essere, per farci abbandonare i vecchi limiti e far emergere nuove parti di noi, nuove possibilità, e una nuova e più profonda guarigione.
Come ci ricorda Paramhansa Yogananda in una sua meravigliosa poesia “Fa’ di me la tua farfalla dell’eternità”, tratta da Sussurri dall’Eternità (Ananda Edizioni):
Possa ogni filo di seta che ha avvolto la mia passata follia essere reciso per sempre. Ecco! Ora quei fili formano una scia dietro di me e si aggiungono alla mia bellezza, mentre volo verso il mio stesso Sé, in Te.